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Se John Ruskin, in un passo memorabile di The Seven Lamps of Architecture, concludeva che la domanda più appropriata che si dovesse porre dinanzi a un'opera fosse: "Fu fatta con gioia, e fu felice chi la realizzò?", di fronte alle opere di Roger de Montebello la domanda più urgente sembra essere: che cosa accade nel pittore mentre guarda? Che si tratti della punta della Dogana o della chiesa di San Michele che si dissolvono nella nebbia, delle variazioni ipnotiche sulla porta di Santa Teresa, dei cipressi iridescenti dell'Isola di San Michele o delle figure inafferrabili e metamorfiche della corrida, Roger de Montebello dipinge instancabilmente uno sguardo, le sue possibilità infinite o forse la sola e unica possibilità autentica, mettendo in scena che cosa accade qui mentre si guarda. In questo sguardo si raccoglie la pienezza sensibile della pura epifania del kalos come l'evidenza improvvisamente visibile dell'idea, la rappresentazione incantata dell'impenetrabile mistero dell'immagine e la meditazione consapevole sul suo potere e il suo paradosso, l'ambiguità estetica, feconda e paradossale, di ogni mimésis e la reinvenzione multifocale della prospettiva al di là di ogni illusionismo prospettico, mentre prende vita una vera e propria meditazione incarnata sulla verità in pittura, cioè sulla pittura come messa in opera estetica della verità al di là di ogni dualità. In definitiva, Roger de Montebello sembra dipingere il confine, il limine sottilissimo e il varco tra ogni immagine e la sua origine, il luogo in cui essa appare e insieme è sul punto di dissolversi, per riconsegnarsi alla sua destinazione originaria.